I GRANDI ALPINISTI NON HANNO PAURA

 

Racconti&Poesie

 

Che cosa dice la tua coscienza?

Devi divenire quello che tu sei.

 

(Friedrich Nietzsche - La gaia scienza)

 

I bambini, tutti i bambini, sognano e io non ho fatto eccezione. Sognavo tante cose. Di certo sognavo di diventare un grande alpinista. I racconti di mio padre, le foto del suo album, poi le prime uscite con lui e infine i suoi libri con le “gesta eroiche” di quei cavalieri dell’inutile, le loro vittorie, le loro gioie, i loro dolori, le loro sconfitte, le grandi tragedie: tutto alimentava il mio sogno.

I sogni prima o poi devono fare i conti con la realtà e il mio ci andò a sbattere contro abbastanza presto, anche se forse non me ne resi subito conto pienamente. Fu nell’estate del sessantadue, in Brenta. Dovevamo salire la Cima Tosa per la via normale dal Rifugio Agostini. I miei ricordi sono molto vaghi: ricordo un canale ripido, di neve ghiacciata, le roccette della sua sponda sinistra, scure e ripide; ricordo la mia angoscia sotto quelle pareti verticali. Non ricordo la bocchetta, ma mio padre mi dice che ci siamo arrivati. Poi c’è una foto: un piccolo bambino di sette anni con gli occhioni gonfi di pianto. Sconfitta? Paura? I grandi alpinisti salgono quelle pareti verticali, non devono sentirsene oppressi. Avrei dovuto capirlo?

L’anno successivo salivo il mio primo tremila, la Punta Basei, dal Rifugio Benevolo, in Val d’Aosta. Difficoltà più modeste, ambiente decisamente diverso: niente pareti verticali di centinaia di metri, ma solo pendii di neve e detrito, una breve cresta elementare e il torrione finale, pochi metri di II grado e infine la cima. Mio padre mi chiamava il suo “piccolo alpino” e il mio sogno si alimentava di una bella “vittoria”.

Le salite con mio padre, per quanto non molto frequenti, continuarono ancora negli anni seguenti; soprattutto si infittivano le mie letture. Mi affascinava quella miscela di eroismo e tragedia che emanava dai racconti delle prime salite sulle grandi montagne del mondo, dalle pareti più severe delle Alpi alle cime ancora inviolate dell’Himalaya, del Karakorum, delle Ande patagoniche. I loro protagonisti diventavano i miei eroi. Non che fossero gli unici: la mia giovinezza si apriva ad altri stimoli e ad altre esperienze; mi conquistava la passione per la giustizia sociale, leggevo Gandhi e Luther King, mi affascinavano il socialismo e il pensiero di Marx che, nello spirito di allora, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo, provavo a conciliare con la mia formazione cristiana.

A quindici anni cominciai ad andare in montagna da solo, con alcuni compagni di scuola. Poi conobbi Adriano e fu subito amicizia, vera, profonda. Ci univano la fede, la speranza in un mondo migliore, l’impegno sociale. Ci univa la passione per la montagna, una passione forte, in cui confluiva tutto quanto, anche il nostro essere cristiani e di sinistra. Eravamo fatti così e insieme avremmo percorso un pezzo importante, quasi vent’anni, della nostra vita.

Decidemmo quasi subito di iscriverci al corso di roccia del Cai Monza: io avevo diciassette anni, Adriano qualcuno di più. In quell’occasione le guglie calcaree della Grignetta mi fecero di nuovo capire, chiaramente, che l’alpinismo si svolge su un terreno verticale, spesso con il vuoto sotto i piedi, e che di tutto ciò è meglio non avere paura. A fine corso un malefico camino, reso viscido dalla pioggia del giorno prima, si incaricò di farmi sperimentare direttamente, complice un istruttore un po’ distratto, l’ebbrezza di un piccolo volo.

L’esperienza del corso rimase comunque un fatto abbastanza isolato nella mia storia alpinistica e solo diversi anni più tardi riuscii a ripercorrere, da primo, le vie di terzo e quarto grado che allora avevo salito sotto la guida di un istruttore. Per molto tempo io e i miei amici siamo stati degli alpinisti senza allenamento e questo incideva negativamente sui risultati che riuscivamo a ottenere. Eravamo poco allenati perché andavamo poco in montagna e perché, quando ci andavamo, non lo facevamo sempre per arrampicare.

 Allora avevamo costituito una bella compagnia di amici e ci muovevamo nell’ambito della parrocchia del nostro paese; c’erano quindi molti impegni, che per me sono cresciuti dopo il servizio militare, quando scelsi di impegnarmi a fondo nell’attività politica entrando nel comitato provinciale e poi nella segreteria di Gioventù Aclista milanese. Così poteva anche passare un mese intero senza che io riuscissi ad andare in montagna, perché c’erano congressi, convegni, assemblee che mi tenevano impegnato in molti fine settimana. E c’erano anche le feste, i momenti collettivi in cui la nostra compagnia si ritrovava a casa di qualcuno per festeggiarne il compleanno o così, solo per divertirsi. C’era da ballare per tutto il pomeriggio e allora, almeno per me, il problema della ragazza era forse più importante dell’allenamento alpinistico. Infine, per qualche anno, prima di partire per il servizio militare, giocai a pallavolo nella squadra del mio paese e questo significava impegni settimanali di allenamento e domenicali di campionato. La mia giovinezza era aperta a mille possibilità e io le provavo tutte, anche se le lunghe assenze dalla montagna mi facevano soffrire.

In queste condizioni la nostra pratica dell’alpinismo non poteva svolgersi che a livelli piuttosto bassi e, dopo l’esperienza del corso di roccia, per noi si trattava di ripartire da zero o quasi. Sceglievamo le vie più facili e questa ci sembrava una scelta intelligente. Forse si sarebbe trattato solo di un inizio un po’ lento, ma la nostra frequentazione della roccia era così rara che quell’inizio fu talmente lento che per diversi anni rimanemmo praticamente al punto di partenza: tra il settantadue e il settantanove non riuscii mai a collezionare più di dieci arrampicate all’anno (a parte c’erano naturalmente le salite su neve e ghiaccio, facili anche quelle). E si trattava sempre di brevi arrampicate in Grignetta, con le uniche eccezioni delle vie normali della Punta Fourà, nel gruppo del Gran Paradiso, e del Pizzo Badile.

Certo, in montagna ci andavamo più spesso; però non arrampicavamo. Ciò accadeva per  tanti motivi: una delle nostre preoccupazioni era quella di non diventare degli automi da palestra, attaccati sempre alle medesime rocce, alienati al punto da non conoscere nient’altro che i sassi di un certo posto e non anche i boschi, i prati, i torrenti, le vecchie cascine, i sentieri solitari, i colori dell’autunno e della primavera, i fenomeni della vita nei diversi momenti dell’anno.

Ricordo che poco meno di un anno dopo il corso di roccia ero salito in Grignetta con Adriano per salire la via normale del Torrione Fiorelli; al Rifugio SEM avevamo incontrato un nostro compagno del corso rimasto quel giorno da solo per un malinteso con i suoi amici. Ci propose di andare con lui allo Spigolo Dorn del Torrione Magnaghi Meridionale, ma noi ci rifiutammo decisamente, rimanendo fermi sulla nostra decisione iniziale. Rassegnato, quell’altro ci seguì, salendo slegato quella stessa facile via (forse c’è qualche passaggio di terzo grado) sulla quale noi stavamo applicando diligentemente tutti gli insegnamenti dei nostri istruttori. Alla fine ci parlò delle sue esperienze e, nel lasciarci, ci consigliò di andare a percorrere la Cresta Segantini: era molto bella e lui l’aveva salita già sette volte. Quell’incontro ci aveva un poco sconcertati: intanto perché avevamo visto quel ragazzo salire con sicurezza e slegato mentre noi ce lo ricordavamo pallido e titubante per la paura durante le arrampicate del corso e poi perché sette salite della Cresta Segantini in otto mesi ci sembravano un segno di autentica alienazione. Ci trovavamo di fronte ad una concezione dell’andare in montagna molto diversa dalla nostra e ricordo che, in accordo perfetto, la stigmatizzammo con dure parole.

L’alienazione da palestra era un fenomeno di cui allora si discuteva e molti alpinisti sensibili lo avevano già criticato, come Gian Piero Motti nell’introduzione alla sua guida della Rocca Sbarua, o lo avrebbero presto fatto, come Claudio Cima nella sua guida delle Grigne. Allora noi non avevamo ancora letto quelle opinioni autorevoli, eppure sentivamo chiaramente che non si poteva diventare un alpinista aperto e veramente amante della montagna ostinandosi a percorrere continuamente le stesse vie, le stesse creste o le stesse pareti. Già, ma noi, per non alienarci, finivamo anche per non allenarci e così, di fatto, in montagna combinavamo sempre poco.

Durante gli anni di cui sto parlando il gruppo delle persone con cui andavo in montagna era molto ampio. Infatti un po’ tutta la nostra compagnia era coinvolta nella passione per la montagna e da qui era nata un’idea un po’ balzana nella mente mia e di Roberto. Una sera di luglio, al Rifugio Benevolo in Val di Rhême, scarabocchiando sui tovaglioli di carta, disegnammo una piccozza con appeso un reggiseno: era nata la “Sess e Sass” (sesso e sassi per chi non è milanese). Iscrizione gratuita, niente tessera, nessuna organizzazione, niente formalità: era sufficiente aver salito una cima dopo aver passato una notte in rifugio, ma in un gruppo misto di ragazzi e ragazze, per esservi ammessi di diritto. Era una ragazzata (e il sesso era puramente metaforico), eppure ci divertivamo un mondo e la “Sess e Sass” raggiunse pure i suoi risultati: la cresta sud-ovest della Punta del Leynir, le vie normali del Mont Gelé, del Monte Gleno, della Punta Calabre, della Granta Parei, dell’Uja di Ciamarella, della Punta Basei e persino la Cresta Segantini, in Grignetta, dopo un pernottamento al Rifugio Rosalba.

Molto tempo dopo, quando incontravo ragazzi assai più giovani di me salire sorridenti e sicuri su vie piuttosto difficili, mi sono trovato spesso a ricordare gli anni della mia giovinezza alpinistica e qualche volta ho pensato di avere perso del tempo. Ma non è così. Guardati più a fondo, quegli anni sono stati troppo importanti per essere giudicati solo dal punto di vista dei miei progressi alpinistici. Sono stati gli anni della mia formazione, quelli in cui sono diventato l’uomo che sono e che forse, per quanto sia in parte cambiato, conserva ancora qualcosa dello spirito di allora, magari anche solo il fatto di sapersi mettere in discussione di fronte alla tentazione di chiudersi nel proprio egoismo, nel culto esclusivo dei propri interessi.

Comunque in quel periodo il mio rapporto con l’arrampicata era complesso e contraddittorio. La roccia mi affascinava almeno tanto quanto mi impressionava; avevo voglia di salire, ma poi, quando ero in parete, sentivo troppo l’idea del vuoto e della caduta; mi sentivo insicuro; avevo paura. Non era sempre così, ma accadeva spesso. Sentivo il bisogno di allenarmi di più, perché pensavo che questo potesse darmi sicurezza. Facevo programmi. Continuavo a sognare, ma imparavo tristemente a misurare la distanza tra le mie illusioni e l’effettiva consistenza delle mie capacità. Ero un po’ come un personaggio sveviano: nutrivo i miei sogni con le appassionanti letture dei libri di montagna, mi dovevo confrontare col modello di un padre alpinista brillante e istintivo, avevo un amico, Adriano, più forte e più sicuro di me. Volevo realizzare il mio sogno, ma quello, ostinatamente, andava a sbattere con la realtà e con le sue dure smentite.

Finì anche per nascerne qualche tensione proprio con Adriano, perché lui non ne voleva proprio sapere di andare più frequentemente in Grigna per arrampicare. C’era troppa gente, le soste erano affollate ed estenuanti, le corde si incrociavano perché più cordate si trovavano impegnate sugli stessi passaggi; non c’era poesia, lo ammettevo, ma almeno ne saremmo usciti più allenati e, magari, più preparati per andare ad affrontare qualche via più bella e più lunga, “in ambiente”, come dicevamo noi allora. Tuttavia Adriano non ne voleva sapere e insisteva a parlare della “ricerca di posti nuovi” e delle “escursioni esplorative”.

Fu allora che conobbi Adelio, di qualche anno più giovane di me. Me l’aveva presentato Rosanna, la ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie; lui voleva cominciare ad andare in montagna e sapeva che io lo facevo da tempo. La nostra amicizia è iniziata così, con una veloce salita al Resegone in una giornata primaverile un po’ anomala, con l’arrivo in vetta salutato da una leggera nevicata. Intanto era cambiata anche l’organizzazione della mia vita; avevo lasciato da qualche mese l’attività politica in Gioventù Aclista e avevo più tempo a disposizione. Io e Adelio cominciammo ad arrampicare insieme; lui saliva davvero bene, in modo naturale: sembrava accarezzare gli appigli. La sua lieta baldanza contagiava anche me e mi ridava la carica.

Le nostre salite si fecero più numerose e frequenti. Quando lui arrampicava da primo io me ne stavo lì al punto di sosta a guardare ammirato la sua progressione veloce e spensierata. Lo invidiavo forse anche un poco, ma soprattutto gli volevo bene, perché poi ogni salita si concludeva con una stretta di mano e uno sguardo d’intesa. “Faremo cose grandi insieme”, mi diceva mentre di corsa saltellavamo felici verso la macchina. Eravamo contenti delle montagne e di noi, della nostra amicizia. Parlavamo e discutevamo insieme tantissimo e non solo di montagna; anche questo mi aiutava, perché Adelio faceva da contraltare alle mie introversioni, smascherando a volte le pose di pessimismo un po’ letterario in cui mi avvolgevo o sdrammatizzando con un sorriso di comprensione un po’ ironica la mia tendenza a cogliere soprattutto i lati negativi delle cose.

Nel settembre del 1980 avevo deciso che con Adelio avremmo potuto iniziare a percorrere qualche via più impegnativa, come la normale della Guglia Angelina o lo Spigolo Dorn al Torrione Magnaghi Meridionale. Inutile dire che Adriano non era d’accordo: al diavolo le sue titubanze, noi saremmo andati a salirle. Tornammo dall’Angelina pieni di entusiasmo: Adriano si fece contagiare e qualche tempo dopo eravamo insieme all’attacco dello Spigolo Dorn. Salgo per primo; tutto va per il meglio, ma a metà della prima lunghezza mi trovo in piena esposizione su uno spigolino di roccia. Più sotto vedo i miei compagni che mi assicurano sorridendo. Ho paura, una paura incontrollabile. Non riesco più a muovermi in nessun modo: vedo gli appigli davanti a me, ma non riesco a togliermi dalla posizione in cui sono per portarmi verso di loro; è troppo esposto, temo di cadere, di farmi male, di sbattere violentemente contro la roccia. Sto tremando. Da sotto mi chiedono cosa stia succedendo; forse si preoccupano. Alla fine riesco a passare più a sinistra, strisciando quasi in una fessura, senza alcuna eleganza, pesante come un sacco di patate; mi tiro su fino alla sosta, mi aggrappo convulsamente ai chiodi e mi autoassicuro. Ce l’ho fatta: ma non è stato quello che sognavo. Volevo arrampicare sul serio, perché quello era stato il sogno di tutta la mia giovinezza, il sogno cullato dalle pagine e dalle fotografie dei libri di montagna, del diario e dell’album fotografico di mio padre: e arrampicare mi costava tutto quello sforzo e quella paura? No, non era possibile.

Rosanna, che era salita con noi fino all’attacco e poi aveva proseguito lungo la Cresta Sinigaglia fino in cima alla Grignetta, ci accoglie alle macchine con una bruttissima notizia: tre ragazzi erano precipitati dalla Cresta Segantini poche ore prima, uccidendosi sulle rocce del Canalone della Lingua. Rimaniamo di sasso. Mi viene da piangere: non si può morire così, per una banalità assurda, per uno scherzo atroce della propria ingenua sicurezza, sul tratto più facile della via. Oggi non ci mancava che questa notizia: le montagne mi sembrano orribili, nemiche, cattive.

Quell’anno sono andato ad arrampicare ancora qualche volta, ma su vie più facili. Proprio allora comprai per la prima volta le scarpette d’arrampicata. Era stata un’idea di Adelio: senza il peso della tradizione alle spalle, proprio lui era il più disponibile ad accogliere le novità. Il mio stato d’animo era il più pronto a seguirlo, perché anch’io volevo uscire dagli schemi in cui avevo sempre agito, forse perché speravo di rinnovare tutto, anche dentro di me. Con quelle scarpette nuove ai piedi terminammo la stagione, mentre i nostri amici ci guardavano un po’ divertiti e un po’ diffidenti. Intanto però dentro di me stava per accadere qualcosa che non avevo previsto.

Durante l’inverno il ricordo della brutta esperienza sullo Spigolo Dorn si riaffacciò più volte alla mia mente: si ingigantiva, ingombrava i miei pensieri, mi tormentava. Una domenica, al termine di una giornata dedicata alle cascate di ghiaccio, scivolai malamente sul sentiero e mi ruppi un dito della mano  sinistra: l’appuntamento con la roccia subiva qualche rinvio e quando finalmente giunse fu catastrofico.

In una brutta giornata del marzo successivo decidemmo di andare a salire la cresta OSA al Moregallo, un facile percorso sul quale mi ero sempre divertito al massimo. E lì la mia crisi ha toccato il fondo, esplodendo prepotentemente e impedendomi di superare da primo quei passaggi, tra l’altro ben protetti, come oggi si dice, sui quali una volta passavo via veloce. Mi sono arreso ogni volta, vinto dalla debolezza fisica, dal freddo, dalla scivolosità delle suole infangate, ma soprattutto dalla paura, da una maledettissima paura che mi attanagliava continuamente, sorgendomi dentro ad ogni passo, ad ogni metro, ad ogni mio affacciarmi sull’orlo del salto di roccia che si apre a sinistra della via. Adriano, che arrampicava con me mentre Adelio e Carlo salivano slegati, ha avuto la pazienza di attendermi, di rispettare i miei vani tentativi, i miei ripiegamenti traballanti.

Eppure forse era necessario che io toccassi quel fondo per poter guardare un po’ meglio dentro di me; non che non sapessi certe cose, ma dopo quella bruttissima salita non potevo più cercare di trascurarle e di passarci sopra per tentare di dimenticarle. Avevo voluto provare me stesso e avevo avuto paura, molta paura; mi sono ritrovato in crisi con l’arrampicata, con i miei stessi amici, che intanto spingevano perché andassimo ad affrontare salite più impegnative. Mi sentivo sconfitto e amareggiato: il mondo stupendo delle montagne mi crollava addosso.

 Certo, le montagne mi avevano già regalato momenti di grande soddisfazione; non c’erano state solo delle bellissime vie normali, come quella del Bernina e del Disgrazia, ma anche piccole avventure fuori dal giro dei percorsi più frequentati, come le creste nord-est del Pizzo Ligoncio e della Grande Aiguille Rousse, la traversata Galisia-Bousson-Basei, la cresta nord della Becca Rayette, i versanti settentrionali della Grand Tête de By e della Tsanteleina.  C’era stata anche qualche salita più impegnativa, come le nord del Ciarforon e della Becca di Monciair, eppure tutto ciò non mi bastava e sapevo che per andare oltre bisognava percorrere una certa strada; ci avevo provato e avevo dovuto fermarmi di colpo, bloccato dalla paura. Non potevo più ignorarla, perché si era piantata proprio tra me e i miei sogni; di fronte a quell’ostacolo mi sono sentito smarrito e sconfitto. Ora dovevo ritrovare me stesso e il mio equilibrio, altrimenti l’alpinismo sarebbe stato per me un’inutile tortura.

Intanto succedeva ancora qualcosa: Adriano, Carlo, Tiziano e Adelio iniziavano ad affrontare difficoltà sempre più elevate. Io ingoiavo il boccone amaro dell’invidia e della gelosia, cercando di adattarmi ad un ruolo definitivo di secondo di cordata. Non era una scelta, ma una necessità: intanto però riuscivo a riconciliarmi con l’arrampicata, divertendomi pienamente e dimenticando, concentrato nell’azione di salire, tutti i miei problemi. Era un piacere effimero, destinato a morire appena cessava la salita, ma era una sensazione di cui non riuscivo a fare a meno, anche se poi, nell’intimo, mi rimaneva la delusione di quel destino di secondo di cordata cui mi sentivo condannato dalla mia debolezza psicologica e dalla forza dei miei amici migliori.

Il mio sogno era quello di essere “primo in cordata”. Non l’avevo realizzato e avevo dovuto accettare un’immagine diversa del mio essere alpinista.  In fondo ci ero riuscito e in tal senso delle belle salite furono la cresta Rey alla Punta di Cian, la traversata da est a ovest del Forquin de Bioula e lo spigolo nord-ovest del Pizzo dell’Oro Meridionale.

Ogni volta ci eravamo trovati da soli con la montagna, con una montagna grande anche se lontana dai clamori delle salite di moda, senza rumore di ferraglia, vociare confuso alle soste, code sotto i passaggi più impegnativi; ogni volta mi ero sentito partecipe della salita e il ruolo di secondo non mi era pesato; sapevo bene che quella corda davanti mi era indispensabile, ma riuscivo comunque a vivere l’arrampicata con gioia, con una gioia vera e non effimera perché nasceva anche da tutto ciò che mi stava intorno e non solo dall’arrampicata.

Sul Forquin de Bioula i nostri passi si erano incrociati con quelli di un gruppo di stambecchi che arrampicavano lungo cenge espostissime, a picco sulla valle; era una situazione ineguagliabile: noi, gli animali e la montagna, insieme, immersi nella natura, su per quelle rocce verticali, alti sopra valloni selvaggi e solitari, lontani dal mondo di tutti i giorni. Sulla Punta di Cian avevamo vissuto un’avventura un po’ rocambolesca, imbattendoci in una discesa resa complessa da tantissima neve; io e Carlo riuscimmo ad evitare l’intervento del soccorso alpino (messo in allarme a causa del nostro eccessivo ritardo), lanciandoci in una velocissima discesa lungo un canalone nevoso, mentre Adriano e Tiziano scendevano più lentamente. Della salita al Pizzo dell’Oro ricordo soprattutto la suggestione dell’ambiente, quando arrampicavamo al cospetto delle muraglie severe e selvagge del Pizzo Ligoncio e della Sfinge; e poi la sensazione elettrizzante degli ultimi tiri, con quel passaggio espostissimo, affacciato su un salto verticale di centinaia di metri. Dimenticavo tutto, le mie crisi, le mie amarezze, e vivevo l’avventura che mi si offriva; credevo che il discorso fosse chiuso; invece doveva ancora riaprirsi.

A capodanno dell’ottantatré ci portiamo ai Piani di Bobbio e il  giorno dopo saliamo la Cresta Ongania: roccia e neve, molto bello. Nulla a che fare con le vere invernali e con il loro cammino di sofferenza: su quelle rocce innevate noi ci siamo soprattutto divertiti. Riprendo a salire da primo, ma siamo sul secondo grado o non molto di più. Poi ci riprovo altre volte, sempre sul facile. Ad agosto andiamo in campeggio in Val Varaita; da buoni occidentalisti ci siamo portati gli attrezzi per le vie di ghiaccio e il nostro obiettivo principale è costituito dalla via Coolidge alla nord del Monviso, ma i canaloni sono ridotti ad ammassi di detriti e di ghiaccio nero. Ho con me la vecchia guida di Severino Bessone; roba del cinquantasette, senza schizzi, senza gradi, senza valutazione complessiva delle difficoltà. La studiamo attentamente, ma poi cominciamo a salire la cresta nord della Rocca Gialeo, perché avevamo una relazione più recente, con tanto di gradi e di indicazioni, e vogliamo andare sul sicuro.

Credevamo di trovare l’ambiente delle nostre montagne lecchesi, con soste superattrezzate, chiodoni ad anello per le doppie, frecce e indicazioni di ogni sorta ad ogni bivio; invece non c’è niente perché, anche se la nostra relazione presentava il posto come la palestra dei cuneesi, gli alpinisti locali la disertano un poco (così, almeno, ci è sembrato). A parte una certa confusione durante la discesa, causata da prati e detriti inclinati oltre misura, ci divertiamo moltissimo: la cresta non è molto continua, ma è sempre esposta e, intorno, l’ambiente è suggestivo, così solitario e selvaggio, immerso in un silenzio profondo. Perso in questa realtà anch’io dimenticavo me stesso; ero contento di essere lì, insieme ai miei amici, partecipe di un gioco stupendo.

 Dopo la Rocca Gialeo riprendiamo in mano la vecchia guida di Severino Bessone e scopriamo un universo di montagne povere ma belle davvero, trascurate dalla maggior parte degli alpinisti, attratti, anche giustamente per certi aspetti, da cime dai nomi più famosi. Durante quei giorni abbiamo percorso alcune vie, superando passaggi di difficoltà molto varia, dal secondo a quinto grado, su montagne (la Punta Due Dita, la Punta Gastaldi, il Visolotto, le Rocce Meano) il cui nome, al di fuori dell’alpinismo locale, è probabilmente sconosciuto.

Su queste rocce sono tornato ad arrampicare da primo in modo del tutto naturale, senza strappi in avanti, senza forzature psicologiche. Già sulla Rocca Gialeo avevo scoperto in me uno spirito nuovo e su qualche tiro ero andato in testa; poi mi è esplosa dentro una voglia nuova di arrampicare e le rocce mi hanno sorriso come non facevano da anni, forse come non avevano mai fatto. Tra quei diedri e quelle placche di solida roccia ho trovato finalmente il mio equilibrio interiore. Perché, ripensando al mio passato, ho scoperto il tarlo di un’inutile competizione con me stesso e con i miei risultati, con il modello di mio padre, forse anche con i miei amici, dai quali non volevo farmi sorpassare, imponendomi di stare al loro livello quando non ero ancora pronto. La paura aveva bussato alle porte del mio spirito e di prepotenza era entrata in me, strappandomi dagli occhi il velo opaco che mi impediva di conoscere la verità di me stesso; la paura aveva fermato una corsa sciocca e inutile perché quasi disperata, imponendomi di ricominciare tutto da capo; la paura mi aveva salvato, aiutandomi a imboccare una strada che forse non mi si era mai aperta davanti, ma che io avrei comunque rifiutato perché ero troppo orgoglioso e prigioniero delle mie illusioni.

Alla fine questo cammino mi ha aiutato a capire che in montagna dobbiamo cercare innanzitutto la dimensione autentica del nostro io e del nostro essere parte del gioco infinito del mondo. Alcuni, i più forti, troveranno anche la fama e la gloria grazie alle loro imprese con le quali faranno avanzare la storia di questa grande passione umana che è l’alpinismo, ma ciò che veramente conta è incontrare se stessi e costruire un rapporto con la montagna che sia libertà e avventura. Incontrare se stessi significa anche conoscere i propri limiti, ma questo non ci rende meno liberi e non uccide l’avventura, perché avventura significa disponibilità e apertura; significa mettere in gioco se stessi e le proprie certezze, non tuffo disperato nel nulla; la conoscenza di sé è la condizione che mantiene l’avventura al di qua del limite dell’impresa assurda; e ciò vale anche se avventura significa apertura al rischio: il rischio fa parte del gioco, ma non è il gioco in se stesso. L’alpinismo non è la roulette russa e non penso che la roulette russa possa essere chiamata avventura.

Qualche mese dopo le arrampicate in Val Varaita, salii con Adriano la via Cassin alla Corna di Medale. Era un giorno feriale ed era un pomeriggio d’autunno. Eravamo da soli sulla grande parete e uscimmo dalla via nella luce incerta del tramonto. Ero euforico. Sprizzavo gioia da tutti i pori. Per un giorno intero rimasi come sospeso in quello stato quasi di esaltazione. Qualcosa di veramente nuovo era certo scattato dentro di me.

Sono tornato su quella parete l’anno successivo: volevo capire se quella scalata era stata soltanto un episodio passeggero o se davvero aveva segnato la fine del mio difficile rapporto con la roccia. Questa volta era di domenica e c’era tanta gente, troppa; le soste erano interminabili. Una volta sarei diventato nervoso e avrei perso ogni stimolo a salire, ora sorridevo quando, arrampicando, qualche fortissimo mi incalzava da dietro malignando sulle mie condizioni di allenamento: ero tranquillo perché sapevo di fare le cose come dovevo e che i tempi indicati nelle relazioni delle guide non sono dei record da battere, ma parametri per capire quello che stai facendo e come lo stai facendo.

Dopo il “traversino” ho guardato verso il basso: duecentocinquanta metri più sotto vedevo le cime degli alberi, i ghiaioni, i tetti delle case di Lecco; più lontano, l’Adda scorreva lento e solenne verso la pianura, luccicando tremulo ai raggi del sole. Ho pensato al volo di un gabbiano sulla superficie increspata di un lago, al gioco delle farfalle sui fiori dei prati, al vento quando gioca con la neve sulle creste delle montagne. Guardando la corda e i rinvii che mi davano sicurezza ho capito che non potrei farne a meno e che non sono un gabbiano o una farfalla nel vento, ma un uomo pieno di limiti. Però ero sereno. Non ero diventato un grande alpinista, ma ciò non contava.

 

Negli  anni successivi ho arrampicato tantissimo. Arrampicare era diventato ciò che, probabilmente, deve essere: un gioco, un piacere, una gioia del corpo e dei movimenti. C’era anche la tensione ad affrontare salite sempre più impegnative, ma con la serena consapevolezza delle proprie possibilità, con un gusto della sfida e della conquista che non faceva a pugni con la realtà dei propri limiti.

I torrioni della Grigna divennero un terreno di gioco ideale ed era bello, nonostante l’affollamento di certe giornate, sapere di ripercorrere vie purtroppo molto frequentate ma aperte dai nomi più belli dell’alpinismo lombardo e non: Albertini, Dorn, Gasparotto, Boga, Cassin, Vallepiana, Merendi. Quando avevamo solo mezza giornata ci bastava una via di pochi tiri sulle Placche dell’Angelone o sulla Rocca di Baiedo, a pochi minuti dal parcheggio. Andavamo ad arrampicare anche quando il tempo non era dei migliori: se proprio andava male, buttavamo una doppia e ce ne tornavamo a casa senza troppi inconvenienti.

La bella stagione ci spingeva lontano, “su le dentate e scintillanti vette” delle Alpi. Mi affascinava soprattutto il granito, rugoso, saldo, spesso fessurato (che piacere piazzare dei nut a prova di bomba) e ancor più spesso foggiato a placche “al di qua della verticale”, magari un po’ lisce, da aderenza, ma, insomma, senza quel benedetto vuoto sotto i piedi che talvolta, specie su certi passaggi in Grigna, mi procurava ancora delle belle scariche di adrenalina.

Così scoprimmo la Svizzera e le sue montagne. E’ stato soprattutto con Paolo, che avevo conosciuto a metà degli anni ottanta, che mi dedicai a “spazzettarle” (come ebbe a dire un nostro amico) con entusiasmo. Tanto quarto grado, una giusta dose di terzo e terzo più, qualche bel tiro di quarto superiore e, ogni tanto, il passaggio di quinto a suggellare una grande giornata: erano questi gli ingredienti del gioco. Due salite su tutte mi vengono in mente: lo spigolo nord del Badile (luglio 1986) e la cresta sud del Salbitschijen (luglio 1990). Due vie magnifiche per estetica e per qualità della roccia, per il panorama che le circonda: le affrontammo in giornate ideali, limpide e luminose. E ogni volta è stato bellissimo.

 

Poi venne la morte di Adriano, precipitato mentre scendeva dal Becco di Valsoera, dove aveva salito la storica via Mellano-Perego. Fu un colpo durissimo, che prima di tutto ci ferì negli affetti più intimi. Perdevamo un amico e la ferita fu profonda, molto profonda. Era sposato, aveva un bambino ancora piccolo. E anche le nostre famiglie erano amiche. Restammo spaesati.

Anche l’alpinismo ne risentì. Qualcuno di noi decise di piantarla e cacciò tutta l’attrezzatura in cantina. Qualcun altro accettò fatalisticamente la tragedia, come qualcosa di “possibile” dentro un’attività che, comunque, contiene anche quel rischio. Io rimasi sconvolto. Per diversi mesi non mi avvicinai alla montagna. Andavo in bicicletta.

L’estate successiva volli riprovare a mettere le mani sulla roccia. Fu un mezzo disastro. Dopo una facile salita alla Punta Battisti, davanti alla parete est del Rosa, io e Paolo tornammo in Svizzera per salire la cresta sud del Gross Furkahorn. Paolo ostentava sicurezza  e gli cedetti volentieri il primo tiro: un diedro di quarto. Si incrodò a metà e ne uscì a fatica raccomandandomi in continuazione di “tenere bene” perché stava per volare via. Sul secondo tiro la figuraccia toccò a me: mi bloccai su un muretto di quarto; tremavo e mi ci volle un po’ per venirne fuori. La paura tornava ad affacciarsi nel mio rapporto con la roccia. Poi, per fortuna, le difficoltà diminuiscono a guadagnammo l’attacco della cuspide finale. Sei metri verticali di quarto ci fecero ripiegare su comode cenge che portavano al colletto da cui inizia la discesa.

Tornammo a casa col morale un po’ basso ma comunque decisi a non lasciar perdere. Ricominciammo con più umiltà e le belle salite non si fecero attendere. Forse però qualcosa si era spezzato. Arrampicare non era più “il massimo”. Avevo bisogno di altre cose. Scoprii l’escursionismo impegnativo, le valli solitarie di cui, incredibilmente, le nostre Alpi sono ancora ricche. Le arrampicate si fecero più rade.

Eppure sulla vetta del Cervino, salito nel luglio del 1996 lungo la via normale italiana della cresta del Leone, la mia gioia era grande. Era stata una giornata speciale. Alla capanna Carrel io e Carlo ci trovammo con poche altre cordate. Al mattino partimmo per primi, superando i primi tiri alla luce delle pile frontali. Due cordate ci raggiunsero al Linceul, poi, dopo la Gran Corda, la guida con la sua cliente s’involarono quasi di corsa lungo la cresta del Pic Tyndall e sparirono alla nostra vista. Proseguimmo insieme a due giovani delle nostre parti. Dopo l’Enjambée noi rallentammo e loro proseguirono più veloci. Le altre cordate erano più indietro e le incontrammo solo in discesa.

In cima eravamo da soli, stanchi e commossi. La vetta del Cervino è un posto incredibile: una sottile lama di roccia e neve sospesa tra due pareti ripidissime, alte centinaia di metri. Intorno, per diversi chilometri, non ci sono montagne così alte. Gli altri quattromila sono lontani: li vedi intorno a te come un’ampia corona di cime superbe. Ma tu sei nell’aria, vicino al cielo, lontano dalla vita quotidiana che palpita laggiù in fondo, duemila metri più in basso.

Era il 21 luglio: sei anni erano passati dalla mia salita alla cresta sud del Salbitschijen e dalla morte di Adriano (avvenute lo stesso giorno); eppure la salita al Cervino non è stata un nuovo inizio; è stata un culmine; forse è stata una fine. Negli anni successivi qualcosa è cambiato e le salite su roccia si sono fatte ancora più rare. Mi ero immerso di nuovo nell’attività politica (sono stato assessore comunale), gli amici hanno via via lasciato l’arrampicata, qualcuno per problemi fisici, qualcuno perché si era infilato in complicate storie sentimentali, qualcuno semplicemente perché aveva scelto altre strade. Io stesso ho passato parecchio tempo a combattere contro il mio corpo che si stava in po’ stancando: mal di schiena acuti e continui, operazione al menisco, tendinite.

Oppure un ciclo era finito? Avevo bisogno di altri stimoli? Le grandi escursioni alla ricerca di ambienti solitari in quelle che amo chiamare le “valli del silenzio” si sono fatte più frequenti. Ho scoperto la Val Grande, la celebre area wilderness cantata da Teresio Valsesia e diventata Parco Nazionale all’inizio degli anni novanta. Provavo nuove soddisfazioni, nuove idee si affacciavano alla mia mente. Ogni tanto la voglia di arrampicare riaffiorava, ma le montagne sono così grandi e così vario è il loro mondo che a volte è difficile scegliere.

 

Un giorno sono tornato in Grigna. Era all’inizio di novembre, l’estate dei morti, che ti regala giornate particolari, col cielo intensamente azzurro, l’aria limpida, l’ombra già fredda e un tepore caldo ai raggi del sole. C’era poca gente e così ho potuto, da solo, camminare tra quelle guglie e quelle creste su cui tante volte, anni prima, avevo arrampicato così di frequente. Al termine del giro, tornando dalla cresta Sinigaglia, mi sono fermato un attimo ad ammirare il gruppo massiccio dei Torrioni Magnaghi. Li avevo saliti l’ultima volta otto anni prima, nel 1994, insieme a Carlo, lungo la magnifica traversata delle vie Albertini e Lecco. Mi sono chiesto se sarei tornato a salire quelle pareti, quelle guglie, quegli spigoli aerei. Non ho trovato la risposta. Potrei di nuovo imbattermi nella paura? Può darsi. D’altronde non sono diventato un grande alpinista. Ora però non mi interessa più. Sono diventato quello che sono: un uomo che ama la montagne e che vuole continuare a salirle. Per essere felice? Non lo so. Certo per provare qualcosa.

 

Qualche mese più tardi, nel marzo del 2003, sono salito sul Grignone dal versante ovest, seguendo un bellissimo canalone di neve che nessuna guida descrive, ma che io cercavo da tempo di individuare e percorrere. In cima ho pianto. Ero commosso? Ero felice? Cosa mi stava succedendo? Non so spiegarlo fino in fondo, ma sento che voglio salire le montagne per poter piangere. Non so bene cosa dicano quelle lacrime, ma quando mi capita è come se dentro sentissi una pienezza di vita autentica, che nello stress quotidiano del nostro mondo moderno faccio troppa fatica a trovare.

Negli anni in cui arrampicavo tanto, quel gioco sulla roccia forse mi regalava questa stessa cosa, in forma probabilmente più gioiosa. E forse è proprio questo che vado a cercare in montagna. Ed è quello che continuerò a cercare, piantando i ramponi nella neve, magari ancora appoggiando le scarpette sulla roccia, oppure, più semplicemente, mettendo un passo dietro l’altro, verso la cima.

 

Racconti&Poesie