Valgrande partigiana: il rastrellamento del giugno 1944

Immagini

 

La Val Grande è stata testimone di uno dei più drammatici episodi della Resistenza all’occupazione nazista e al fascismo: il rastrellamento del giugno 1944. 17.000 uomini (15.000 tedeschi e 2000 fascisti) attaccano le formazioni partigiane (450/500 uomini in tutto) insediate sui monti della Val Grande e della vicina Valle Intrasca. Perché tanta sproporzione di forze? Forse perché i nazisti sopravvalutano la forza numerica dei partigiani, forse perché vogliono essere sicuri di raggiungere l’obiettivo che si sono proposti: distruggere le formazioni partigiane operanti tra quelle montagne nel quadro di una più vasta operazione tesa a colpire la resistenza nel Piemonte nord-orientale, dove è particolarmente attiva. Le operazioni proseguiranno infatti anche nel basso Cusio e in Valsesia nella prima metà di luglio e si concluderanno nel biellese il 26 dello stesso mese: ma in questi casi il risultato per i tedeschi sarà decisamente negativo.

 

Le formazioni partigiane presenti sui monti del Verbano sono tre: la VALDOSSOLA, che opera in Val Grande, la CESARE BATTISTI, che è installata tra Pian Vadà e il Passo Folungo, e la GIOVINE ITALIA, che agisce tra Miazzina e il Pian Cavallone. In tutto sono 450/500 partigiani, di cui 350 armati, soprattutto di moschetti e fucili ’91.

La Valdossola è nata dalla fusione di un piccolo gruppo proveniente dalla bassa Valle Antigorio, guidato da Mario Muneghina, con un gruppo di giovani riuniti intorno a Dionigi Superti. La Valdossola arriverà a contare circa 300 uomini; Superti ne è il comandante, Muneghina (il “capitano Mario”) il numero due.

La Cesare Battisti (70/80 uomini) è nata per iniziativa di tre sottotenenti dei bersaglieri, Arca (Armando Calzavara, della provincia di Treviso), Marco (Giuseppe Perozzi, di Urbino) e Selva (Enzo Piazzotta, della provincia di Varese), che si sono stabiliti in Valle Intrasca dopo un’esperienza partigiana finita male nel pinerolese subito dopo l’armistizio.

La Giovine Italia inizia la sua attività dopo l’8 settembre nella zona di Miazzina. Dal marzo 1944 la comanda l’operaio comunista cremonese  Alfredo Labadini, chiamato Guido il Monco (ha perso una mano in seguito a un incidente di lavoro). La banda utilizza talvolta l’alberghetto del Pian Cavallone, ma il comando si installerà al vicino rifugio. Alla fine di maggio 1944 conta più di ottanta uomini. In quello stesso mese entreranno nella formazione due tenenti degli alpini: il verbanese Gaetano Garzoli (Rolando), che ne assumerà il comando, e Mario Flaim di Rovereto.

 

 

 

Dionigi Superti (1899-1968). Durante la prima guerra mondiale era stato volontario negli alpini e poi nell’areonautica, guadagnandosi quattro medaglie al valor militare. Nel 1919 si era iscritto al Partito Repubblicano e durante il fascismo aveva subito due carcerazioni e il confino. Negli anni che precedettero l’inizio della Resistenza era direttore dei lavori di disboscamento nell’alta Val Grande per conto dell’IBAI (Industria Boschiva Alta Italia). Saranno proprio i boscaioli dell’IBAI, sotto la sua guida, a dare vita, dopo l’8 settembre 1043, al primo nucleo della formazione Valdossola, di cui Superti divenne presto il comandante. Si faceva chiamare “maggiore”, ma nessuno sa quale grado abbia avuto (se l’ha avuto) nell’aviazione. I suoi uomini lo ammiravano e lo amavano perché sapevano che era un uomo coraggioso e leale. Entrato in contatto con gli Alleati (attraverso i consolati americano e inglese di Lugano) per ottenere aiuti in armi e viveri mediante lanci aerei, aveva un’idea attendista del compito resistenziale: per lui occorreva mantenere intatte le forze partigiane in attesa delle iniziative degli Alleati. Per sua volontà, la formazione Valdossola si trasferì tutta in Val Grande, considerata difficilmente inespugnabile (purtroppo non sarà così). Il comando fu posto a Orfalecchio, mentre altri distaccamenti erano presenti lungo tutta la valle. Sopravvissuto al rastrellamento, ricostituirà la Valdossola che parteciperà alla liberazione dell’Ossola e alla difesa della repubblica partigiana (10 settembre-23 ottobre 1944).

 

Mario Muneghina. Iscritto al PCI sin dal 1921, dopo l’8 settembre aveva dato vita ad una formazione partigiana che operava nella zona tra Montecrestese e Pontemaglio, all’inizio della Valle Antigorio. Più avanti si era unito alla formazione Valdossola, divenendone il vicecomandante. Il “capitano Mario” non condivideva però la linea attendista di Superti; secondo lui occorreva agire e attaccare fascisti e nazisti senza aspettare l’iniziativa degli Alleati. Questa divergenza non rimaneva solo sulla carta. Il 29 maggio 1944, ad esempio, due settimane prima del rastrellamento, una trentina di partigiani del Valdossola, al comando di Muneghina, lasciò il distaccamento del corte di Velina e attaccò il presidio fascista di Fondotoce, procurandosi armi, munizioni e viveri e facendo anche 45 prigionieri (i fascisti lasciarono sul campo anche 4 morti e alcuni feriti). Sopravvissuto al rastrellamento, si ricongiungerà a Superti e alla formazione Valdossola. Ma le divergenze tra i due erano ormai troppo evidenti e Muneghina darà quindi vita alla brigata Valgrande Martire che entrerà nelle Brigate Garibaldi come 85a brigata, partecipando alla liberazione dell’Ossola e alla difesa della repubblica partigiana (10 settembre-23 ottobre 1944).

 

Maria Peron (1915-1976). Era un'infermiera dell'Ospedale di Niguarda di Milano. Ai primi di maggio del 1944 era entrata nella formazione Valdossola. Durante il rastrellamento e fino alla Liberazione sarà "l'infermiera dei partigiani", eseguendo, con strumenti di fortuna, anche interventi chirurgici (come l'estrazione dei proiettili e delle schegge). Ma, in quei giorni, era anche il medico della Val Grande e si prendeva cura della gente degli alpi e di Cicogna.

 

Un gruppo di comandanti partigiani dell'Ossola. Mario Muneghina, il "capitano Mario" è al centro della fotografia (è il più piccolo del gruppo). Il primo a sinistra è Aldo Aniasi ("Iso").

 

Partigiani in azione nella zona dell'Ossola

 

LA CRONACA DEL RASTRELLAMENTO

 

Il pomeriggio dell’11 giugno una colonna motorizzata tedesca sale da Rovegro verso Cicogna. Nei pressi della galleria che precede Ponte Casletto si imbatte nei partigiani che difendono la postazione e inizia lo scontro a fuoco. Verso sera i tedeschi si ritirano. Lo scontro riprende il mattino successivo. Due autoblindo cercano di attraversare il ponte che però viene fatto saltare dai partigiani. La stessa sorte tocca al ponticello sulla mulattiera che proviene da Cossogno, ma non alla passerella della condotta dell’acqua.

Nel frattempo una colonna tedesca proveniente da Mergozzo, dopo aver scavalcato il Monte Faié, attacca Corte Buè che viene abbandonata dai partigiani. Lo scontro si sposta intorno al Ponte di Velina, che poi verrà fatto saltare nel tentativo di fermare l’avanzata tedesca.

A Ponte Casletto, verso mezzogiorno, la situazione peggiora. I tedeschi costringono i partigiani ad arretrare, riescono ad attraversare la passerella dell’acqua e iniziano a salire verso Cicogna. Le case di Velina sono colpite dai mortai e dalle mitragliatrici piazzati a Corte Buè: Mario Muneghina decide la ritirata in Val Pogallo e manda a chiamare gli uomini che si trovano al comando di Orfalecchio (Superti è assente, perché si è recato in Svizzera per contattare gli Alleati). Verso sera i partigiani del Valdossola (circa 280 uomini) con una cinquantina di prigionieri iniziano a salire verso Corte del Bosco.

Il mattino successivo (dopo aver lasciato una ventina di prigionieri chiusi in una stalla) la colonna riparte e all’alba si trova sopra l’Alpe Prà, dove vengono individuati da un ricognitore nemico. I tedeschi, che intanto hanno occupato Cicogna, iniziano il tiro dei mortai. I partigiani, senza scendere a Pogallo, iniziano a traversare verso l’Alpe Brusà, dove si fermeranno per la notte (l’alpigiano di Busarasca si è rifiutato di ospitarli). Un gruppo di uomini è inviato a Pogallo per controllare l’avanzata dei tedeschi; anche i feriti vengono inviati a Pogallo: da qui saranno portati nella zona ancora tranquilla del Pian Cavallone, dove si trovano gli uomini della Giovine Italia.

 

Intanto a Orfalecchio, nella giornata del 12, è rientrato Superti che viene informato dai pochi rimasti. Il comandante fa richiamare gli uomini che si trovano all’Arca e a In la Piana e insieme (sono una trentina di uomini) traversano a Velina, dove giungono all’alba del 13. Da qui salgono a Corte del Bosco e a sera ripartono per Pogallo, dove arrivano all’alba del 14. Superti viene informato della situazione e manda due uomini all’alpe Brusà per ordinare a Muneghina di scendere a Pogallo per rientrare in Val Grande (ha concordato con gli Alleati un lancio di viveri e armi su In La Piana). Muneghina (informato da una pattuglia che in Val Cannobina non ci sono nemici e convinto che la Val Grande sia ormai solo una trappola) si rifiuta di seguire Superti: il Valdossola si spacca in due gruppi.

 

Gli aerei tedeschi sparano sugli uomini nascosti nel bosco intorno all’Alpe Brusà. Poi il tempo si guasta e la visibilità ridotta consente agli uomini di Muneghina di iniziare la marcia verso la Bocchetta di Terza per scendere in Val Cannobina. Sono 200 partigiani (un gruppo ha deciso di seguire Superti) e una trentina di prigionieri: all’alba del 15 giugno si fermano in un faggeto del vallone di Finero. Il tempo è pessimo e anche la situazione è drammatica, perché i tedeschi hanno raggiunto il fondovalle e la popolazione, terrorizzata, non aiuta i partigiani che non conoscono la zona.

A sera, col cielo tornato sereno, gli uomini di Muneghina riprendono il cammino; alcuni non tengono il passo e un gruppo di 20/25 uomini perde il contatto con il grosso della colonna: tenteranno di rientrare in Val Grande attraverso Scaredi e la Val Portaiola.

La colonna di Muneghina giunge presso Finero; a Pian di Sale incrocia i tedeschi: alle 3,30, inizia una tremenda battaglia. Alla fine, mentre il tempo si guasta di nuovo, Muneghina ordina agli uomini di disperdersi per meglio sottrarsi alla caccia nemica. Alcuni finiranno oltre confine, alcuni saranno uccisi dai tedeschi, altri catturati. Mario Muneghina, con una quindicina di uomini, arriva all’Alpe Polunnia (Val Cannobina), dove si scontra ancora con i tedeschi. Per alcuni giorni il gruppetto (sono rimasti in dieci) vagherà intorno al Monte Torriggia e tra le rocce del Gridone. La sera del 20 giungeranno presso gli alpeggi di Orasso dove verranno accolti e rifocillati da una contadina del luogo.

Il gruppo che si era staccato dalla colonna nel vallone di Finero sta intanto cercando di rientrare in Val Grande, ma deve fare i conti con la presenza ormai massiccia dei tedeschi; all’alba del 18 questi uomini arrivano sotto la Laurasca e tentano di traversare verso l’Alpe Scaredi; qui però ci sono già i tedeschi e allora il gruppo, sotto la pioggia, prova a salire alla Bocchetta di Scaredi. Anche qui ci sono nemici: i partigiani si arrendono. Consegnati ai fascisti della Muti, verranno portati a Malesco, torturati e poi trasportati a Intra.

 

Al mattino del 15 giugno, Superti e i suoi (in tutto 70/80 uomini) lasciano Pogallo Alta e nel  tardo pomeriggio sono alla Bocchetta di Campo. Il mattino successivo scendono all’Alpe Campo e all’Alpe Portaiola: gli alpigiani li informano che nessun reparto tedesco è passato di lì. Passano da In la Piana e arrivano all’Arca che è quasi il tramonto. Qui trovano un pacchetto di sigarette buttato da poco: è tedesco. All’alba del 17 una pattuglia di partigiani si imbatte nei tedeschi. Superti ordina quindi la ritirata lungo il canalone tra la Ganna Grossa e il Pedum. Si fermeranno a 1800 metri, presso il nevaio terminale. Qualcuno è ferito. Piove. Resteranno in quel punto per due giorni, ma i tedeschi non se ne andranno, anzi hanno ormai esteso l’occupazione agli alpeggi dell’alta valle.

All’alba del 20 giugno gli uomini d Superti si rimettono in moto: la prima parte del percorso sotto le strette del Casè e Cima Pedum è massacrante, il terreno è impervio e privo di sentieri. C’è nebbia e questo impedisce ai tedeschi di vederli. Arrivano di nuovo all’Alpe Campo e poi nei pressi dell’Alpe Portaiola, dove si preparano per passare il torrente. Sono uomini stremati dalla fatica e dalla fame. Di colpo la nebbia si alza. I tedeschi piazzati all’Alpe Portaiola li vedono e iniziano a sparare. E’ una strage: non meno di trenta partigiani muoiono. I superstiti si disperdono alla disperata ricerca della salvezza.

Un gruppo di nove uomini (guidati da Mario Morandi e dai fratelli Alfonso e Bruno Vigorelli) sale verso l’Alpe Riazzoli, nei pressi della quale precipita e muore Bruno Vigorelli. Possono muoversi solo di notte. All’alba del 22 giungono all’Alpe Casarolo, dove l’alpigiano ha già accolto quattro uomini scampati alla strage dell’Alpe Portaiola. I tedeschi li raggiungono. I partigiani si arrendono (in tre riescono a fuggire e raggiungeranno la salvezza a Colloro) e verranno fucilati sul posto.

Della colonna di Superti sopravvivono solo altri dieci/dodici uomini, tra cui lo stesso Superti che è riuscito a raggiungere l’Alpe Crot (alta Val Gabbio) e poi, allo stremo delle forze, sarà trovato dagli alpigiani di Premosello.

 

Il 13 giugno i partigiani della Giovine Italia ricevono qualche notizia di ciò che sta accadendo dai feriti e dai loro accompagnatori che provengono da Pogallo, ma non riscono ad avere chiara la situazione. Il 14 i fascisti della legione Leonessa salgono oltre Miazzina ma sono respinti dai partigiani; lo stesso accade a un reparto tedesco sotto il Pizzo Pernice. Il 15 giugno la battaglia riprende tra la Colma e il Pian Cavallone. Gli attacchi dei tedeschi sono respinti per tre volte, poi dal campo sportivo di Intra inizieranno ad arrivare i colpi del mortaio da 149 e le sorti dello scontro cambieranno. All’arrivo della notte la battaglia è finita: i partigiani devono ritirarsi. Flaim si porterà al Pian Vadà per tenere i contatti con la Cesare Battisti; Guido e altri uomini, tra cui i feriti e i disarmati rientrano nel fondovalle per tenersi buoni per un’altra volta; Rolando con pochi altri salirà alla Marona per contrastare l’avanzata tedesca. 

 

All’alba del 16 un’autocolonna tedesca parte da Colle e, lungo la strada militare, avanza verso le posizioni della Cesare Battisti al Pian Vadà. Il comandante Arca ha potuto disporre la difesa, ma le forze tedesche sono preponderanti.

Intanto un reparto tedesco, dal Pian Cavallone, marcia verso il Pizzo Marona, dove si trovano Rolando e pochi altri uomini della Giovine Italia. Il primo attacco nemico è respinto. Poi arrivano i colpi del mortaio da 149, ma anche l’attacco del pomeriggio è respinto. In serata, dal Vadà, arriva Flaim e al mattino del 17 altri partigiani della Cesare Battisti. Alcuni scendono in Val Marona, altri rimangono. E’ di nuovo battaglia, ma a mezzogiorno tutto sarà finito. La cappelletta verrà fatta saltare. Undici corpi verranno trovati sotto la cima, verso la Val Pogallo. Di Rolando si perderà ogni traccia.

 

Il bilancio del rastrellamento è tragico. Tra i partigiani si contano circa 300 morti. 150/160 sono caduti in combattimento; 150 sono stati eliminati tra il 17 e il 27 giugno dopo essere stati catturati e, quasi sempre, picchiati e torturati (vedi la cartina e le immagini). Tra i civili ci sono 7 vittime. Le perdite del nemico sono valutabili in 200/250 morti e almeno altrettanti feriti. Ingenti danni sono stati provocati alle case, agli alpeggi e ai rifugi (vedi le immagini).

 

Nel mese di luglio, dopo il rastrellamento, i superstiti della Cesare Battisti (40 uomini) si trovano a Rocca di Scareno; quelli della Giovine Italia (60 uomini), guidati da Guido, si installano a Miazzina. Mario Muneghina, tornato dalla Val Cannobina, si porta di nuovo all’Alpe Velina con gli altri superstiti della Valdossola. Qui li raggiunge Superti. Le divergenze tra i due sono ormai insanabili e Muneghina ne trae le conseguenze, dando vita, con una trentina di uomini, ad una nuova formazione, la Valgrande Martire. Superti, con un’altra trentina di uomini, si porta all’Alpe Crot per ricostituire la Valdossola su posizioni diverse dall’attendismo originario. Alla fine del mese la Giovine Italia confluirà nella Valgrande Martire. All’inizio di luglio, nel retroterra di Cannero, si costituisce, per iniziativa di due ufficiali milanesi (Filippo Frassati e Nicola Lazzari), una nuova formazione, la Giuseppe Perotti, di ispirazione monarchica. La Valgrande Martire entrerà nella 2a divisione Garibaldi come 85a brigata. Queste formazioni parteciperanno attivamente alle successive fasi della lotta partigiana nel Verbano e nell’Ossola.

 

FUCILAZIONI, ECCIDI, DANNEGGIAMENTI, DISTRUZIONI

Le vittime del rastrellamento sono state circa trecento. 152 sono state eliminate dopo la cattura. Ecco una tabella dei luoghi e delle esecuzioni avvenute durante quei tragici giorni:

12 giugno, ROVEGRO, 2 morti

14 giugno, MIGIANDONE, 4 morti

16 giugno, ALPE FORNA', 7 morti

17 giugno, PIZZO MARONA, 11 morti

17 giugno, AURANO, 8 morti

17 giugno, PONTE CASLETTO, 2 morti

18 giugno, FALMENTA, 4 morti

 

18 giugno, POGALLO, 18 morti

20 giugno, FONDOTOCE, 42 morti

21 giugno, BAVENO, 17 morti

22 giugno, ALPE CASAROLO, 11 morti

23 giugno, FINERO, 15 morti

24 giugno, PONTE CASLETTO, 2 morti

27 giugno, BEURA-CARDEZZA, 9 morti

 

 

Pogallo. Il grande fabbricato dell’impresa boschiva è diventato il comando tedesco. Qui vengono trascinati dieci partigiani catturati il 17 giugno sotto l’Alpe Baldesaut; altri otto vi saranno portati dopo essere stati presi nei pressi della Bocchetta di Campo. Il giorno 18, i primi dieci prigionieri sono costretti a scavare una lunga fossa alla base del terrapieno sottostante la costruzione. Alle undici inizia l’eliminazione: ogni prigioniero viene convocato negli uffici del comando e gli vien fatto firmare un verbale in tedesco; poi un soldato lo conduce sul bordo della fossa e lo fa spogliare. La scarica del plotone di esecuzione, sei uomini, lo elimina. Poi le operazioni si fanno più sbrigative e tutti i diciotto partigiani vengono eliminati.

 

Pizzo Marona. Dopo la sconfitta del 15 giugno, Rolando e qualche altro partigiano della Giovine Italia si portano sul Pizzo Marona per cercare di contrastare l’avanzata tedesca. Nella serata del 16 arriva anche Mario Flaim dal Vadà e la mattina del 17 sarà la volta di alcuni partigiani della Cesare Battisti. Il mortaio da 149 spara sulla cima; i tedeschi attaccano. Alcuni partigiani scendono in Val Marona. Verso mezzogiorno tutto è finito. Prima di ritirarsi i tedeschi fanno saltare la cappelletta (poi ricostruita). Dopo il rastrellamento, alla base dei roccioni verso la Val Pogallo, verranno trovati i cadaveri di undici partigiani. Alcuni di essi non presentano ferite da arma da fuoco, ma solo quelle prodotte dalla caduta: forse sono stati gettati vivi dall’alto.

 

Il gruppo dei 43 partigiani fucilati a Fondotoce. Nelle cantine di Villa Caramora a Intra, dove si trovava il comando SS, i partigiani, tutti catturati durante il rastrellamento, furono trattati con estrema brutalità (pugni, pedate, nerbate, colpi col calcio del fucile). Verso le quindici del 20 giugno vennero fatti passare in colonna attraverso Intra, Pallanza, Suna e Fondotoce; qui, nei pressi del canale che unisce il Lago Maggiore e quello di Mergozzo furono eliminati tre a tre (uno riuscì miracolosamente a salvarsi dal colpo di grazia perché nascosto dai cadaveri degli sventurati compagni). La donna che si vede in prima fila (unica donna del gruppo) è Cleonice Tomassetti, catturata a Rovegro (o a Corte Buè). Sulle sue ultime ore, trascorse nell’orrore di Villa Caramora, esiste la testimonianza del giudice Emilio Liguori (presidente del Trbunale di Verbania, era stato arrestato per i suoi contatti con i partigiani del Valdossola; trasferito in prigione a Torino, sarà liberato per l’interessamento di personalità religiose e forensi della stessa città). Secondo Liguori, Cleonice “conservò una calma e una serenità incredibile in una donna: e tale calma e tale serenità seppe per virtù dell’esempio, comunicare agli altri suoi compagni di sventura, avanzò per prima verso i carnefici, guardandoli fieramente negli occhi”.

 

Alpe Casarolo. Dopo la tragica battaglia dell’Alpe Portaiola (20 giugno) i partigiani di Superti si disperdono. Un gruppo di nove uomini, tra cui ci sono i fratelli Alfonso e Bruno Vigorelli, sale verso l’Alpe Riazzoli (i fratelli Vigorelli erano sottotenenti di fanteria; avevano incontrato Superti a Lugano, dove il padre era in esilio, ed erano entrati con lui in Valgrande il 12 giugno). Nei pressi dell’alpeggio Bruno Vigorelli precipita e muore. Gli altri, spostandosi solo di notte, all’alba del 22 giungono all’Alpe Casarolo, dove l’alpigiano (Enrico Andreolotti di Colloro) ha già accolto altri quattro uomini scampati alla strage dell’Alpe Portaiola. I tedeschi li raggiungono. I partigiani si arrendono (in tre riescono a fuggire) e verranno fucilati sul posto. Un pastorello di dodici anni (Silverio Dinetti) arriva poco dopo all’alpeggio e tra i partigiani a terra ne scorge uno ancora vivo (probabilmente Adolfo Vigorelli), che gli chiede di richiamare i tedeschi perché gli diano il colpo di grazia. Raggiunti dal ragazzino, i tedeschi tornano indietro e finiscono il partigiano morente. Tra le vittime dell’eccidio ci sono anche l’alpigiano (portato via e ucciso a randellate a In la Piana) e suo fratello Giovanni, che viene fucilato appena arriva all’alpeggio dove i partigiani sono stati da poco eliminati. 

Nella foto: Alfonso, detto Fofi, e Bruno Vigorelli

 

Pian Cavallone. Il 21 maggio 1944 i fascisti della legione Tagliamento, dopo aver attaccato i partigiani della Giovine Italia, danno fuoco all’alberghetto che viene distrutto (non sarà ricostruito). Le distruzioni provocate dal rastrellamento saranno ingenti: 208 baite sono state incendiate; 50 case di Cicogna sono state distrutte o danneggiate dal bombardamento tedesco; tre rifugi alpini (Bocchetta di campo, Pian Cavallone, Pian Vadà) sono stati distrutti e un altro (Casa dell’Alpino all’Alpe Prà) danneggiato. Il rifugio Pian Cavallone verrà ricostruito dopo la guerra. Quello della Bocchetta di Campo è stato recentemente  restaurato (1999) dal Parco Nazionale Val Grande.

 

FONTI BIBLIOGRAFICHE 

I testi di questa pagina sono stati elaborati tenendo conto sopratutto del libro di Nino Chiovini (1923-1991), I GIORNI DELLA SEMINA. Nino Chiovini, verbanese, è stato un grande conoscitore dell'ambiente e delle genti del Verbano e della Val Grande in particolare. Ad essi ha dedicato numerosi importanti lavori. Ha partecipato attivamente alla Resistenza, militando prima nella formazione Giovine Italia e poi nella Cesare Battisti. Qualche altra informazione l'ho ricavata dagli altri libri indicati.

Nino Chiovini, I GIORNI DELLA SEMINA, Vangelista Editori, Milano 1995
Nino Chiovini, MAL DI VALGRANDE, Tararà Edizioni, Verbania 2002

Erminio Ferrari, IN VALGRANDA, Tararà Edizioni, Verbania 1996

 

Le foto in bianco e nero sono state scattate alla mostra allestita in permanenza presso la CASA DELLA RESISTENZA di Fondotoce (via Turati, 9). Tel. 0323.586802

 

 

Immagini